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"ci rubano il lavoro"



Come riporta il V rapporto “I migranti nel mercato del lavoro in Italia” del ministero del Lavoro e delle Politiche sociali, nel 2014 «la variazione positiva del numero di occupati (pari a +0,4% rispetto al 2013) è da attribuire esclusivamente alla componente straniera», visto il calo di quella dei cittadini italiani. Un fenomeno non nuovo, in quanto – continua lo studio – negli ultimi 9 anni, «seppur con lievi incrementi, la forza lavoro straniera ha controbilanciato l’emorragia occupazionale che ha investito quella italiana». Ma la crisi economica ha colpito duramente anche i lavoratori stranieri. ​



Prima di tutto, il tasso di occupazione dei lavoratori stranieri, spiega il report del Ministero, «pur mantenendo performance migliori rispetto alla controparte italiana, ha conosciuto una costante contrazione»: «In 5 anni il valore dell’indicatore nel caso dei cittadini comunitari è calato di 5,5 punti (68,1% nel 2010 a fronte del 62,6% del 2014), così come è calato il tasso degli extracomunitari di 4,1 punti (dal 60,8% al 56,7%); riduzioni molto più ampie rispetto ai -0,8 punti in cinque anni rilevati per gli occupati italiani».


In contemporanea, il tasso di disoccupazione degli stranieri è cresciuto in maniera costante tra il 2010-2013, «per poi rallentare e decrescere nel 2014», all’opposto di quello italiano, che nell’anno precedente al 2015 ha raggiunto il 12,2% rispetto all’11,6% del 2013. Per un quadro più completo è necessario però specificare che, per quanto riguarda gli stranieri la domanda del sistema economico-produttivo italiano «è pressoché schiacciata su professionalità low skills»: più del 70% dei lavoratori stranieri lavora, infatti, come operaio.


Di conseguenza il salario è basso e molti stranieri sono costretti a portare avanti due lavori, con una percentuale maggiore (2,2%) di quella degli italiani (1,2%). Inoltre – continua il rapporto del Ministero – il costo della manodopera straniera è basso: «fatti 100 i dipendenti Ue ed Extra Ue, poco meno del 40% percepisce un salario fino a 800 euro (nella medesima classe gli italiani sono il 15,2%)». In più, a parità di qualifica ci sono differenze sostanziali a seconda della cittadinanza: «prendendo in esame la qualifica di operaio, il 22,5% degli italiani percepisce meno di 800 euro mensili, a fronte del 41,2% dei lavoratori stranieri comunitari e del 40,6% di quelli extracomunitari».


Su questa disparità retributiva si fonda il timore di dumping salariale e di concorrenza tra lavoratori italiani e stranieri. Ma la questione è molto più complessa. Come spiegato in un saggio della Banca D’Italia pubblicato nel 2012 che analizza 15 anni di immigrazione in 15 Paesi d’Europa: «Secondo la recente letteratura economica, l’immigrazione non avrebbe effetti negativi sui lavoratori del paese ospitante, in termini né di tassi di occupazione né di livelli retributivi». Anzi, scrivono gli autori del testo, che: ​



«Sulla base dell'analisi empirica dei dati dell'indagine sulle forze di lavoro dell'Unione europea per il periodo 1996-2010, un aumento della quota di immigrati causerebbe una maggiore specializzazione in mansioni complesse per i lavoratori del paese ospitante e che, grazie a tale riallocazione, questi ultimi avrebbero un incremento delle retribuzioni medie pari allo 0,7%».



Nel caso specifico dell’Italia, secondo uno studio del Cnel (Consiglio nazionale dell’economia e del lavoro) dal titolo “Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano” (2012), «non ha consistenza» l’ipotesi che l’immigrazione determini la perdita di lavoro da parte degli italiani o che abbia un effetto negativo sulle loro retribuzioni. «La presenza immigrata – si legge nella sintesi del report – non ha un ruolo significativo nell’influenzare la probabilità per un lavoratore italiano di perdere l’occupazione entrando nella disoccupazione. Non c’è un concorrenza». Qualche effetto, non rilevante però dal punto di vista quantitativo – specificano gli autori dello studio –, si può ritrovare invece «in termini di probabilità di ingresso nell’occupazione per i disoccupati». Inoltre, spiega ancora lo studio del Cnel, per quanto riguarda le retribuzioni dei lavoratori italiani «non si rileva un effetto spiazzamento significativo ricollegabile alla presenza di immigrati sul territorio».


Dato ribadito nello studio della Fondazione Leone Moressa, “Il valore dell’immigrazione in Italia”, in cui si legge che secondo il CRELI (Centro di ricerca per i problemi del lavoro e dell’impresa) «l’immigrazione non ha un effetto significativo sulle retribuzioni, ma invece esiste un elevato gap tra le retribuzioni degli italiani e degli stranieri a sfavore di quest’ultimi», dovuto alle basse qualifiche ricoperte dagli immigrati e alle loro difficoltà negli avanzamenti di carriera. Evidenzia il report, ancora, che «ad emergere con crescente preoccupazione è la dualità del mercato del lavoro e l’etnicizzazione di alcune professioni».


Inoltre, secondo la ricerca “MIPEX 2015. Migrant Integration Policy Index”, l’Italia presenta criticità rispetto agli altri paesi europei riguardo l’inserimento dei migranti nel mondo del lavoro. Come si legge nei risultati della ricerca, «da un lato, numerosi giovani migranti non risultano né inseriti nel mondo del lavoro né inquadrati in un percorso di formazione, dall’altro c’è invece il problema opposto, ossia, non si riesce a soddisfare l’alta formazione degli immigrati, che continuano a svolgere lavori che non sempre rispecchiano il loro livello di studio».


Gli immigrati soffrono, infatti, di una “eccessiva” istruzione – come mostrato da un’indagine dell’Istat – rispetto al livello che viene richiesto dal lavoro svolto. Ciò provoca una segmentazione del mercato del lavoro che coincide con un’imperfetta e parziale assimilazione economica degli immigrati, e che in parte è dovuta a fenomeni di discriminazione. Ma a fronte di queste disomogeneità e criticità, i lavoratori stranieri hanno un impatto benefico sull’economia italiana. Come si legge nel rapporto del ministero dell’Interno, gli effetti potenziali dell’immigrazione sono numerosi, dai prezzi dei beni di consumo e delle abitazioni, alla fruibilità dei servizi pubblici, dall’integrazione culturale ad altri ambiti dell’economia. In termini di ricchezza nazionale, scrive il Sole 24 ore gli stranieri occupati, che nell’ultimo anno hanno raggiunto i 2,3 milioni, in aumento del 5% rispetto all’anno precedente, «hanno contribuito alla produzione di circa 123 miliardi di euro di valore aggiunto, ovvero l’8,8% della ricchezza nazionale complessiva».


Inoltre, come calcolato dalla Fondazione Leone Moressa, il saldo tra spesa pubblica e tasse pagate dagli stranieri è positivo, per un valore di 3,9 miliardi di euro. Ulteriore beneficio, secondo Il “V Rapporto Idos su Imprese e Immigrazione” (2015), arriva dalla crescente diffusione dell’iniziativa imprenditoriale immigrata, che, nel 2014 ha bilanciato la lieve ma progressiva contrazione della base imprenditoriale autoctona, duramente provata dalla crisi.


Infine, altra questione (complessa) è quella del lavoro nero, che gli ultimi dati del ministero del Lavoro danno in crescita rispetto al 2014. Secondo il rapporto “Il lavoro sommerso e irregolare degli stranieri in Italia” (2014) dell’Isfol (Istituto per lo sviluppo della formazione professionale dei lavoratori) mancano leggi adeguate a contrastare il binomio irregolarità lavorativa clandestinità, sia a livello europeo che nazionale.​



«Il fatto di essere stranieri – si legge nel report – rende questi soggetti (già socialmente vulnerabili perché non contrattualizzati) ancora più deboli, esponendoli a gravi violazioni della dignità e dei diritti individuali e a forme di sfruttamento a livello di retribuzioni, di condizioni di sicurezza, di riconoscimento delle tutele a disposizione, come quelle legale e sanitaria».



L’istituto ha cercato di mappare anche i profili di queste persone (intervistandone 3000 in sei Regioni e quindi non rappresentativi statisticamente dell’intera popolazione degli immigrati). I risultati hanno evidenziato che l’irregolarità riguarda prevalentemente giovani tra i 25 e i 34 anni, provenienti da paesi extracomunitari (il 55% degli intervistati dall’Africa), giunti da poco in Italia e con livello di istruzione bassa. Secondo la ricerca, inoltre, più di due terzi degli irregolari è impiegato in professioni non qualificate (per l’esattezza il 72,6%), a differenza del 48,2% dei regolari. La “legge Rosarno”, approvata nel 2012 dal governo Monti – che recepisce la Direttiva 2009/52/CE – era stata scritta proprio per contrastare lo sfruttamento di stranieri irregolari, con pene maggiori nei confronti dei datori di lavoro. Ma la norma non è riuscita a ottenere i risultati auspicati. Un fallimento che Amnesty international ha dimostrato a due anni dalla sua applicazione: «i criteri [...] della legge hanno gravemente compromesso la possibilità di immigrati irregolari di accedere alla giustizia e alla piena riparazione, cui avrebbero diritto sulla base degli standard internazionali».


A seguito delle morti di tre braccianti (due stranieri e un’italiana) nel luglio scorso nei campi pugliesi, il ministro delle Politiche Agricole e Forestali, Maurizio Martina ha annunciato una piano di contrasto al capolarato. Un problema che coinvolge quasi tutte le regioni d’Italia e riguarda, non solo gli stranieri irregolari, ma anche immigrati con regolare permesso di soggiorno, rifugiati e donne italiane che, racconta Raffaella Cosentino in un’inchiesta su laRepubblica, vengono prese perché «più affidabili, ma soprattutto più "mansuete" delle lavoratrici straniere, protagoniste in passato di proteste e denunce». Il rischio di questa situazione, sempre più concreto, è che si alimenti una continua guerra tra poveri, senza diritti e garanzie.



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